Il Testimone

articolo di
Francesco Pensovecchio
giornalista nel settore wine, food & tourism e direttore di Wineinsicily.com

Nutrita da autentiche emozioni, ispirata da piccole sorprese nelle buone pratiche di casa, la cucina è un talento raro che, qualche volta, si trasforma in qualcosa di più serio sino a sfociare in un esigente professionismo.

La “trasmissione” intra-familiare, però, non è scontata. Anzi, proprio in ambito professionale con generazioni a confronto, gli stili seguono suggerimenti diversi, alla ricerca di un ipotetico piatto “perfetto”, che fortunatamente non arriva mai. La vena creativa, animata da diavoletti del tutto differenti, gioca e rimette in discussione tecniche, interpretazioni, memoria.

Faccio la premessa perché questa ossessione culinaria mi balena in mente ogni qualvolta varco la profumata soglia del Signum, il cui ristorante è interpretato in maniera brillante da Martina Caruso. Oggi poco più che trentenne.

E prima di Martina? Prima è necessario indagare su Michele, primo cuoco in ordine temporale e papà di Martina. La sua carriera da hotelier e chef di casa Caruso non ha avuto il conforto di modelli professionali precedenti. Anzi, a fine anni ’80 Michele è un insospettabile, confortevole impiegato comunale che, guardando al grazioso borghetto eoliano, bisbiglierà all’orecchio di Clara, sua moglie, “… ma qui un alberghetto ci starebbe bene”.
Martina, dal 2013, raccoglie una ininterrotta serie di premi e successi, senza mai fermarsi. La curiosità, avendo avuto la fortuna di aver visto entrambi all’opera, mi sia concessa: qual è il flusso delle informazioni che transita da una generazione all’altra? Sarà anche una domanda retorica, ma l’indagine tra padre e figlia non dovrebbe essere trascurato. Così, per capire meglio, mi sono fatto una bella chiacchiera con Michele.

D. Michele, il Signum apre nel 1988. Com’era all’inizio?

R. Sino ad allora io lavoravo presso il Comune di Malfa e non avevo alcuna esperienza nel settore alberghiero o della ristorazione. Per me era tutto nuovo. Aprimmo ad agosto e io, ancora, non sapevo quasi nulla su questo tipo di lavoro. Come spesso accade, il buon giorno si vede dal mattino e durante la prima colazione mi chiesero un cappuccino. Solo che io, di fronte alla nuova macchina del caffè, non sapevo proprio come si usava. Fu la mia piccola prima tragedia.

D. Capisco. E come è stata la fase di start-up?

R. Tutto sommato tranquilla e costante. Ma dopo l’aiuto di un paio di articoli, soprattutto su riviste estere, iniziarono ad arrivare tanti ospiti svizzeri e tedeschi. Prenotavano direttamente, già dalla primavera. Noi non sapevamo di queste attività giornalistiche su di noi, con sorpresa lo apprendevamo dai nostri stessi ospiti. Poi capimmo che era la stessa categoria dei giornalisti a prenotare. Il passaparola girava nello stesso ramo del turismo. Noi siamo in questo piccolo borgo eoliano, tipico, con giardini e verde attorno. L’atmosfera è rilassante, protetta. Anche se essenziali nella prima fase, i nostri servizi erano di qualità. Il resto lo faceva l’isola. Credo sia stato questo.

D. Il Signum ha puntato senza tentennamenti su gusto ed estetica

R. Quando abbiamo aperto, nelle Eolie c’erano pochissimi locali che avevano puntato alla cosiddetta “esperienza gastronomica”. Il nostro lavoro partiva dalle fondamenta ma si è sviluppato sui dettagli: stoffe e tovaglioli in lino, bella posateria, da carne e da pesce, calici di cristallo per i vini, flûte per lo Champagne e un servizio all’altezza. Anche l’albergo ha subito importanti trasformazioni, abbiamo inserito mobilia di antiquariato, che con Clara cercavamo nelle Eolie e fuori dall’arcipelago. Volevamo mescolare l’antico con tutti i comfort contemporanei. Diminuirono le camere e alcune furono accorpate, questo per dare più spazio agli ospiti e puntare al concetto di “suite”. Meno a quello di camera. I bagni furono ridisegnati, si scelse la pietra a vivo e la roccia lavica. A seguire arrivò la SPA, che riprendeva lo stile delle antiche terme di San Calogero di Lipari. Tutte queste scelte, lo stile adottato e il lavoro sulla qualità della tavola piacque molto agli operatori turistici i quali ci premiarono.

D. La ristorazione com’era organizzata?

R. All’inizio era molto semplificata, solo colazione e cena. Era una sorta di “mezza pensione”. Le persone andavano in giro per l’isola, mentre la sera volevano stare in hotel. La colazione era all’italiana, anche se la quasi totalità erano ospiti esteri. Pomodorini, frutta, quasi niente di salato, marmellate, pane e croissant. Nel corso della mattina preparavo il menù della sera, verificavo le disponibilità e facevo una piccola carta con tre primi e tre secondi, una portata a base vegetale, una di carne e una di pesce. Un cameriere, a colazione quindi, passava tra i tavoli e prendeva l’ordinazione per la sera. A questo si aggiungeva un buffet libero con antipasti della tradizione. C’erano vari stuzzichini, polpette di melanzane, di zucchine, frittate, caponata, tonno con cipolle, pesce marinato, pesce fritto con la menta e così via.

D. Le forniture presentavano difficoltà?

R. Non particolarmente. Mi rifornivo dai pescatori e dai coltivatori locali, dell’isola. Le verdure arrivavano dai campi di Salina. Qualcosa, ovviamente, arrivava con la nave. L’idea di fondo, però, così come oggi, è di utilizzare prodotti locali. Anzi, da un paio di anni curo un nostro orto, che coltivo per nostro esclusivo consumo. Abbiamo pomodori, melanzane, zucchine, peperoni e lattughe, queste ultime d’estate le evito perché hanno bisogno di molta acqua.

D. La tua cucina da dove viene? Dove hai imparato?

R. I miei piatti erano e sono quelli di casa, di tradizione familiare, che poi ho trasferito in albergo. L’ispirazione era Salina. In sostanza, quasi dispoticamente, trasferivo il mio gusto e le mie ricette agli ospiti. Per fortuna è andato tutto bene. C’erano delle famiglie con bambini che stavano 10 giorni, due settimane, da una a due settimana e io variavo sempre.

D. Che piatti proponevi in menù?

R. Il primo piatto che mi viene in mente è la pasta con i capperi, un piatto che Martina presenta ancora. Dopo aver dissalato i capperi li pestavo con olio e menta, poi aggiungevo scaglie di mandorle che tostavo io. In generale, la mia era una cucina di fantasia. Non sopportavo il menù fisso, più che altro perché per me era una tortura. Il mio approccio era spontaneo e usavo la materia prima con libertà.

D. Anche il servizio era semplificato?

R. Pensa, per avvisare che la cena era pronta usavamo una campana. L’orario di cena oscillava tra le otto e mezza e le nove. Quando avevo finito e i piatti erano pronti, la suonavo io stesso e si andava tutti a tavola. Questo snelliva un po’ il servizio e si creava una atmosfera simpatica.

D. Martina quando ha manifestato la voglia di andare in cucina?

R. Quasi subito. La cosa interessante era che non aveva mai manifestato la volontà di voler cucinare. A casa non lo faceva. Per me fu una sorpresa. Martina non amava i numeri e il tipo di studio che le offriva Lipari le stava stretto. Così, a un certo punto, quasi a bruciapelo, ci disse che desiderava andare a Cefalù alla scuola alberghiera. Caparbiamente organizzò il soggiorno, lo studio e affittò casa per trovare la giusta tranquillità. Si gestiva tutto da sola.

D. Quando è entrata nelle cucine del Signum?

R. Finita la scuola, il periodo di lavoro si svolgeva da giugno a settembre. Le stagioni turistiche erano piuttosto corte, mentre oggi vanno da aprile a ottobre; ma per molti è ancora così. Dopo la stagione, sfruttava il tempo per entrare in cucine famose, stellate, facendo delle esperienze lavorative interessanti, come la scuola di Gambero Rosso.

D. Quanto avete cucinato insieme?

R. In cucina siamo rimasti insieme circa tre anni. Ha seguito le ricette e la cucina che proponevo. La mia impressione è che Martina abbia sempre saputo quello che voleva e come vedeva la sua cucina. Un cambio, in tutta la gestione, era stato già avvenuto con l’ingresso di mio figlio Luca nella direzione dell’hotel. In cucina iniziarono ad avvicendarsi diversi stagisti e collaboratori, piano piano ho deciso di fare meno ore e il passaggio è avvenuto fluidamente. Martina aveva 23 anni.

D. Luca è mai intervenuto nelle scelte della cucina?

R. Premetto che Luca non cucina. Però a tavola è un gourmet esigente e un eccellente degustatore. Per questo aveva intuito, giustamente, che per ottenere successo doveva mettere a proprio agio i clienti. Ma anche qui, come accennato prima, il passaggio è stato rapido e inaspettato: io e mia moglie Clara dovemmo allontanarci dall’hotel per un periodo abbastanza lungo, proprio durante l’estate. Da ragazzo senza pensieri qual era, venne fuori il carattere, l’impegno sotto il profilo professionale.

Un’ultima parola tocca a Martina:

D. Martina, del periodo in cucina con papà cosa mi dici?

R. Che è stato eccezionale. Pensa che per i primi anni ha lavorato in cucina da solo. Gli ospiti però crescevano sempre e, insieme a me, si sono aggiunte altre tre figure. Io mi occupavo dei primi, questa passione mi è rimasta ancora. Oggi, invece, siamo tra dieci e undici. Tra i suoi cavalli di battaglia, che propongo ancora con piacere, ci sono lo “scorfano a ghiotta”, il “pesto di capperi” e nei piccoli eventi il “ragoût bianco di mare”. Sul lavoro c’era il giusto distacco dalla condizione familiare “padre-figlia”. Mi stupiva il rispetto della materia prima anche nelle cotture. I prodotti, dalla terra o dal mare, arrivavano a tavola in maniera quasi integra e pieni di sapore. Per il resto, alcuni riti li manteniamo ancora. Ad esempio, la mattina prende la vespa e va a fare la spesa, io se posso lo accompagno. Così succede ancora oggi. Ha un fiuto e una conoscenza speciale, delle forniture se ne occupa ancora lui. Ma non è facile: basti pensare che oltre l’80% è prodotto isolano, tra pescato, frutta e verdura. Senza calcolare la gestione dell’orto, che in questi mesi ha ulteriormente intensificato.